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Intervista a Danilo Bariani -fisioterapista
A cura di Mariella Lajolo
Come la sperimentazione di un approccio diverso, basato su strategie empatiche, sulla complicità emotiva, sul coinvolgimento attivo dei parenti dei pazienti affetti dal morbo di Alzheimer e sulla musica, ha permesso di raggiungere risultati insperati.
Mi chiamo Bariani Danilo, ho 49 anni e dal 1994 esercito la professione di fisioterapista. Ho sempre lavorato a contatto con i pazienti anziani, avendo avuto un’esperienza quindicennale in varie RSA.
Nel 2012 un collega mi ha proposto di entrare in un progetto chiamato RSA APERTA. Questo progetto prevedeva l’assistenza a domicilio dei pazienti affetti dal terribile Morbo di Alzheimer.
Fino ad allora, mi era capitato di curare pazienti affetti da questa patologia in maniera molto superficiale, anche perché nei nuclei Alzheimer delle RSA, i pazienti sono quasi tutti allo stadio avanzato, per cui è quasi impossibile stabilire un qualsiasi rapporto paziente-operatore.
La gestione del malato al proprio domicilio, mi ha aperto un mondo tutto nuovo, anche perché il progetto era appena iniziato, per cui bisognava creare tutto, dai protocolli, alle strategie di cura, ai metodi di approccio verso il paziente e verso le persone che circondavano il paziente stesso.
Già da subito, mi sono reso conto di quanto questa patologia avesse pieno potere, col tempo, di annientare completamente la personalità umana, rendendo un essere umano, che fino a poco tempo prima ragionava ed era padrone di se stesso, un computer senza all’interno alcun programma, una macchina senza centralina, un cervello senza più una scheda di memoria e la padronanza decisionale.
Assieme alla presa di coscienza di quanto fosse devastante questa patologia, più passavo il tempo coi pazienti, più mi rendevo conto di quanto la persona che mi trovavo di fronte fosse proiettato in un mondo tutto suo. Un mondo comunque a proprio modo sereno, un mondo dove i pensieri negativi venivano spazzati via dalla serenità del non pensare, di conseguenza non sapere.
Questa dimensione, mi ha fatto pensare al film AVATAR ,dove il protagonista, militare paraplegico, a seguito di un incidente in combattimento, tramite una macchina scientifica, veniva proiettato in una dimensione dove non solo era dotato di arti inferiori perfettamente funzionanti, ma addirittura di super poteri.
All’inizio confesso che non è stato molto facile l’approccio, i pazienti pur nella loro serenità interiore, manifestavano una certa riluttanza a essere mobilizzati o a seguire istruzioni precise, anche se riguardavano solo il semplice movimento di aprire o chiudere una mano.
La stessa resistenza, la trovavano anche i colleghi a esempio nell’igiene personale, specialmente nelle pazienti di sesso femminile. L’essere toccate, anche solo con una spugna in zone intime e non da persone della cerchia famigliare, creava non poche reazioni negative.
Abbiamo così cercato di sperimentare un approccio diverso, basato su strategie empatiche e, l’essere coadiuvati dai parenti, per qualsiasi contatto tra paziente e personale esterno, ha dato quasi subito un discreto risultato. Si è notato subito quanto fosse importante per l’operatore esterno, creare una sorta di complicità emotiva, a volte anche rischiando di uscire dagli schemi. Ricordo un paziente che usciva per la passeggiata quotidiana, solo se gli veniva permesso di orinare contro una pianta a lui congeniale. Se durante la passeggiata, questo gli veniva negato, o si faceva la pipì addosso, o il giorno successivo si rifiutava di uscire.
Utile nel creare un tipo di rapporto basato sulla fiducia reciproca, è stato il poter gestire il paziente nel proprio domicilio dove, pur essendo comunque incapace di autogestirsi, conservava un minimo di memoria logistica sufficiente, per consentire una mobilità autonoma, ad esempio per recarsi dalla poltrona del salotto ai servizi igienici e viceversa.
Una volta stabilito il rapporto di fiducia tra paziente e operatore, nel mio caso per quel che riguardava la fisioterapia, venivo informato dai parenti, con piacevole stupore, che il paziente il giorno della seduta, già dal mattino aveva atteggiamenti diversi, come se si aspettasse il mio arrivo (questo accadeva sempre coi pazienti allo stadio medio-basso della patologia).
Nel 2014, il programma RSA APERTA aveva ormai un’utenza di pazienti numerosa. Gestivamo pazienti che spaziavano dal primo stadio, con solo difficoltà mnemoniche lievi, con cui si poteva creare un programma riabilitativo personalizzato, a pazienti allettati, nutriti con sondini, totalmente apatici, con cui si poteva solo effettuare fisioterapia passiva, per evitare i blocchi articolari.
Così, insieme al fisiatra responsabile, alla psicologa, all’infermiera e all’arte terapeuta, con il patrocinio del Comune e con le sovvenzioni economiche di qualche Ente, abbiamo dato inizio al progetto ALZHEIMER CAFFÈ.
Questo progetto, veniva svolto negli spazi messi a nostra disposizione da una RSA .
Il progetto consisteva in 12 incontri con pazienti e parenti, che venivano effettuati in genere il sabato pomeriggio, per la durata di circa tre ore.
Una volta arrivati, dopo un breve incontro per i saluti formali, si procedeva dividendo i pazienti dai parenti, che venivano riuniti in una stanza, dove discutevano le problematiche della gestione domiciliare dei propri cari. Queste discussioni venivano seguite in alternanza dal fisiatra, dall’infermiera e dalla psicologa, garantendo una figura professionale ad ogni incontro.
I pazienti venivano riuniti a loro volta in un’altra stanza, dove io come fisioterapista e la mia collega arte terapeuta ci alternavamo, coadiuvati da volontari preparati, in caso qualche paziente necessitasse di recarsi ai servizi durante l’incontro, o semplicemente per aiutarli nella coordinazione durante la ginnastica.
Una volta conclusi lo scambio tra i parenti e la seduta dei pazienti con me o con la mia collega, ci si ricongiungeva e si procedeva con la merenda, che diventava l’occasione per capire quanto interesse avesse suscitato nei pazienti il lavoro svolto, bevendo bibite e mangiando i dolci, offerti dai parenti.
Durante i primi incontri, notavo che l’interesse e l’attenzione dei pazienti verso gli esercizi, a cui venivano sottoposti era molto scarsa, in relazione al fatto che non suscitava in loro particolare interesse o stimoli su cui focalizzarsi.
Un giorno, dopo una valutazione con il medico referente del progetto, abbiamo deciso di provare ad abbinare della musica come sottofondo, come stimolo al movimento e come deterrente rilassante (visto che avevamo notato che alcuni pazienti si sentivano a disagio nell’essere costretti a rimanere chiusi in uno spazio limitato per un paio d’ore, senza un riferimento).
Abbiamo anche deciso di sostituire il normale impianto radio con la mia chitarra.
Questo perché lo strumento, che tenevo in mano, avrebbe portato i pazienti a focalizzare l’attenzione su di me e sulla chitarra, mentre se avessimo posizionato la radio in qualsiasi parte della stanza, avrebbe distolto l’attenzione dalla mia figura, orientandola verso la fonte di provenienza della musica.
L’introduzione della chitarra ha suscitato subito un forte interesse nel gruppo.
Abbiamo incominciato ad abbinare ogni accordo di una canzone a un movimento di una parte del corpo. Una volta terminati gli accordi, se i movimenti svolti dal gruppo avevano dato esito positivo, suonavo tutta la canzone.
Un giorno, durante la seduta, mentre stavo suonando una canzone popolare, avevo notato che una paziente, si era alzata e aveva incominciato a ballare. Questo atteggiamento, del tutto nuovo, aveva suscitato interesse in alcuni pazienti, che a loro volta si erano alzati e avevano incominciato a ballare.
Un altro feedback positivo, l’abbiamo riscontrato nel vedere che alcuni pazienti seguivano il tempo o battendo le mani o muovendo parti del corpo a tempo con la musica.
Vedendo il cambiamento che aveva portato all’interno del gruppo l’introduzione della chitarra, abbiamo cominciato a preparare con i parenti una scaletta di brani, un tempo apprezzati dai pazienti, ma poi sepolti nei meandri oscuri della mente.
Con stupore abbiamo notato che i pazienti, sentendo la propria canzone, iniziavano a cantare, anche se a volte le parole non riaffioravano immediatamente, per cui non facevo altro che ripetere la canzone.
Questa nuova situazione, ha cambiato completamente lo svolgimento della seduta, ormai da una seduta di fisioterapia, si era passati a un vero e proprio set coreografico di suoni e balli, e ogni volta l’interesse dei pazienti aumentava.
Durante la seconda sessione di incontri, un sabato pomeriggio, durante l’incontro preliminare tra parenti, pazienti e noi operatori, il marito di una paziente, con le lacrime agli occhi, ci ha confessato che il sabato prima, aveva accantonato le paure e i timori e, caricata la moglie in macchina, l’aveva portata in una sala da ballo.
Quella sera avevano ballato a lungo e la moglie, sempre secondo il marito emozionato, aveva sbagliato ben pochi passi. La vera emozione del marito, non era data dal fatto che la moglie avesse ballato, ma dal fatto che, dopo tre anni che non uscivano di casa per andare in una sala da ballo, aveva scoperto di poterlo ancora fare.
Ormai ogni sabato, la fisioterapia era momento di ballo, di canto e di festa, a tal punto che, sempre con l’aiuto di tutti i volontari e noi operatori, abbiamo organizzato una cena di fine sessione, nel corso della quale i volontari cucinavano e servivano i tavoli, mentre noi suonavamo, tipo orchestra.
Questa serata si svolgeva nelle aule dell’oratorio, messe a disposizione dal Comune.
La cosa bella era il vedere la felicità negli occhi dei parenti, mentre si mangiava e successivamente si cantava e ballava, e ancor più appagante era lo sguardo dei pazienti, uno sguardo che aveva perso quel velo di tristezza e rassegnazione.
Uno sguardo che diceva: questa sera è la mia serata e ci sono anch’io.
Col tempo, sempre più Comuni hanno aderito a questo progetto, tant’è che, quando io ho terminato nel 2017, i Comuni aderenti al progetto erano ben 7.
Realizziamo i nostri progetti con tre elementi essenziali:
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