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Come possiamo porci davanti a una figura sanitaria senza sentirci in difetto? Chiedere del proprio stato di salute è un diritto di ogni paziente. Il rapporto umano è alla base di ogni collaborazione tra paziente e professionista.
Laura Noseda Osteopata con Diploma di Osteopatia italiano e Master in Scienze Osteopatiche (Università del Surrey -UK).
Questa volta voglio parlarvi dal mio punto di vista e di come vedo trattati alcuni pazienti da altri professionisti, per parsimonia di parole.
Questo modo di lavorare, ha fatto sì che si sviluppasse nei pazienti l’erronea idea che devono accettare qualsiasi atteggiamento da parte della figura professionale, a cui si rivolgono.
In realtà ho visto un cambiamento nelle diverse generazioni che si rivolgono a me (molto più curiose e con meno remore a chiedere spiegazioni), ma ho contemporaneamente osservato una sorta di accettazione acritica, a proposito di quanto viene loro detto.
Non credo che sia più il tempo in cui la figura sanitaria sia da considerare come la depositaria di ogni conoscenza e, di conseguenza, la personificazione dell’infallibilità. I tempi si sono evoluti e le persone hanno una preparazione maggiore in diversi ambiti e mostrano curiosità in quelli non di loro competenza.
Innanzitutto nessuna figura sanitaria è infallibile ma, se la propria professione venisse praticata con il desiderio e la passione di aiutare ogni persona riguardo alla sua salute, con dovizia e approfondimento del caso e considerando il paziente una persona e non un caso clinico, molte esperienze poco piacevoli potrebbero essere evitate.
E lo affermo guardando dal punto di vista del paziente.
Non è per mancanza di fiducia ma, quando sono io dall’altra parte, quando sono io a rivolgermi ad altri professionisti, li tempesto di domande, per capire al meglio la mia situazione. E, nel caso in cui mi manchi qualche tassello utile per la comprensione, chiedo finché non sono soddisfatta. Mi capitò da ragazza di rivolgermi a un fisioterapista chiropratico, che in quindici minuti aveva finito di manipolarmi. Alla mia domanda: ‘Che cosa ho’? Mi era stato risposto con l’appuntamento successivo. Ricordo che da quella esperienza ho determinato che, se avessi deciso di fare un lavoro del genere, avrei soddisfatto ogni richiesta del paziente. Cosa che è oltretutto anche una dimostrazione di interesse e di considerazione nei confronti di un altro essere umano.
Questo penso che sia il primo diritto del paziente: porre domande in merito al proprio stato di salute e pretendere che gli venga spiegato con ogni mezzo disponibile, in modo che possa comprendere.
Un altro diritto del paziente è di essere ascoltato, durante la raccolta dei dati per l’anamnesi.
E’ vero che le domande a cui si può rispondere solo in modo affermativo o negativo, sono quelle che permettono al professionista di arrivare più velocemente ad una diagnosi differenziale plausibile ma, sempre in base alla mia esperienza, ho ben presente che non sto dolo raccogliendo dati per completare un questionario, di conseguenza, se una persona ha necessità di esprimersi con più parole, capisco che ha bisogno di farsi conoscere e in questo modo mi fornisce notizie utili sul suo stato emotivo, che influenza quello del corpo. Ovviamente non lo lascio parlare a ruota libera di questioni o avvenimenti che non servono all’anamnesi, questi potranno essere raccontati durante il trattamento.
Da parte del professionista è facile cadere in una lista di domande di routine, rischiando di dimenticare la persona specifica che si ha di fronte. Ma ogni persona è a sé e l’approccio deve avere una propria forma e dinamica. Mettere a proprio agio il paziente, significa lavorare in maniera migliore e più efficace.
Un’altra cosa che mi è capitata alcune volte, è il fatto che molti pazienti, mentre mi fanno vedere il referto e il dischetto di un esame diagnostico per immagini, mi dicono che non gli è stato spiegato bene, che non gli è stato “letto” il referto. Si tende spesso infatti ad usare un linguaggio “medichese”, parlando con il paziente. Questa è una cosa che non ho mai voluto che facessero i miei studenti.
Se io dovessi andare in un negozio di computer e la persona che mi segue iniziasse a parlare usando il gergo informatico, io non capirei nulla. Mi è successo frequentemente e ogni volta ho chiesto di spiegarmi in italiano.
Lo stesso vale per i pazienti che, normalmente sono a digiuno di “medichese”. Questo è un linguaggio, un gergo per addetti ai lavori, serve per rendere più veloce la comunicazione tra professionisti. Ma sono convinta che ogni paziente, ogni persona, abbia il diritto di traduzione delle parole dal “medichese” all’italiano.
In fin dei conti stiamo parlando della sua salute, non di qualcosa che non lo riguarda direttamente!
Un altro aspetto che mi ha colpito, è che molti pazienti, la maggior parte, ingurgita farmaci senza che gli sia stato spiegato un granché dell’effetto e delle interazioni con altri farmaci o alimenti. Quindi sono persone che assumono farmaci, sia chimici che sintetizzati dalla natura, senza sapere più di tanto di quello che mangiano insieme al cibo. Credo che questa questione sia molto importante, in quanto ha a che fare con il prendersi una parte di responsabilità nei propri confronti. E credo sia dovere di ogni figura sanitaria spiegare i motivi per cui somministra determinati farmaci e gli effetti che si aspetta abbiano.
Un’altra cosa problematica è che molto spesso le persone usano internet per farsi una diagnosi approssimativa. Internet è certamente una risorsa utile, ma bisogna conoscere i siti seri e del settore per cercare di capire cosa si ha o si potrebbe avere.
Una volta ho fatto una prova e ho inserito alcuni segni e sintomi che accusavo in quel momento e ho avuto un responso spaventoso.
Per evitare quindi che una persona, a digiuno di basi mediche, cominci a reagire a una diagnosi sbagliata e grave, come è solito fornire internet, sarebbe meglio prima di tutto rivolgersi ad un professionista sanitario, anche più di uno, che possa fornire ipotesi di diagnosi, da verificare con esami clinici, per poter delineare una visione d’insieme della persona e individuare la cura più adeguata.
A me spesso capitano pazienti che mi forniscono la loro diagnosi tratta da internet, come se l’avesse fatta il medico di base.
Infine il mio consiglio è quello di porre molte domande al professionista, per avere più indicazioni possibili ed essere aiutati a prendere in carico la propria salute, responsabilizzarsi, amarsi un di più e di conseguenza poter collaborare maggiormente con la figura scelta.
Alla fine è questione di consapevolezza.
Da entrambe le parti.
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