Psiche e Corpo

Psiche e Corpo

Un futuro libero dalla ripetizione

Cambiare la narrazione della propria vita ed aiutare altri a fare lo stesso, per aprire possibilità di futuro in discontinuità con il passato.

Perché mi ritrovo a vivere sempre le stesse sofferenze? Perché, anche se cambio partner e inizialmente sembra essere completamente diverso dai precedenti, dopo un po’ di tempo mi ritrovo immersa nelle stesse dinamiche? Perché mi si ripresentano sempre situazioni simili, anche se ho la chiara consapevolezza che non sono adeguate e sane per me? Perché mi ritrovo a percorrere sempre le stesse strade e non riesco ad aprirne di nuove, anche se attraverso di esse giungo inevitabilmente in territori insoddisfacenti? Perché continuo a considerarmi incapace, inadeguata…, nonostante le esperienze abbiano sconfessato quest’immagine che ho di me?

La metafora che si ha di sé e la narrazione di sé che si dà a se stessi e agli altri, condiziona fortemente il nostro modo di rapportarci a noi stessi e alla realtà ed influenza le opzioni che si mostrano ai nostri occhi.
Visto che  ognuno di noi è: quello che ritiene di essere e ciò che gli altri gli rimandano; ciò che narra di sé  e ciò che gli altri narrano di lui, per poter cambiare, diviene fondamentale mutare le narrazioni che organizzano le nostre interazioni con il mondo, modificare le descrizioni e le auto-descrizioni del mondo.

Infatti il modo di narrare noi stessi, influenza il modo in cui pensiamo a noi, in cui interpretiamo cosa ci succede e mostra certi scenari come possibili, diversi da quelli che si aprirebbero con altre narrazioni.

Afferma J. Hillman:“Il modo in cui immaginiamo la nostra vita è anche il modo in cui ci apprestiamo a viverla, perché il modo in cui ci diciamo ciò che sta accadendo, è il genere per il cui tramite gli avvenimenti diventano esperienza. Non ci sono nudi eventi, fatti chiari, semplici dati; anche questa semmai è una fantasia archetipica: il semplicismo della natura bruta o morta”. 

E ancora: “Una precoce consuetudine con i racconti, abitua all’esperienza della loro efficacia. Si sa quanto possano le storie, come possano costruire dei mondi e trasporre l’esistenza in questi mondi …. S’ impara che i mondi sono fatti anche con le parole e non solo con i martelli e i fili metallici”

Anche il poeta F. Pessoa, sostiene che noi siamo ciò che pensiamo e che vediamo ciò che pensiamo, tanto da arrivare a confondere la complessità della realtà con la nostra esperienza e, di conseguenza, ridurla e semplificarla.

Lo scrittore e regista A. Boal, padre del “Teatro dell’Oppresso”, descrive questo fenomeno attraverso due metafore molto immediate: “Chi ha un poliziotto nella testa, vede solo malfattori”,  “Chi ha un martello nella testa, vede solo chiodi”. Metafore che indicano che dall’errore cognitivo si producono conferme e che l’errore di analisi si “incista”, cioè si approfondisce e produce una serie di errori a catena nel tempo.

Un modo per cercare di disinnescare questi meccanismi ed evitare che il conosciuto sbarri la strada al conoscibile, può essere guardare la realtà con uno sguardo aperto, curioso, disponibile allo stupore.

Si tratta di “curare la storia”,  ri-inmaginarla sulla base di presupposti diversi: allora le difficoltà possono diventare occasioni di sperimentazione e di cambiamento, le porte chiuse si possono provare ad aprire ed iniziare a profilarsi direzioni prima inimmaginabili, a prospettarsi nuove opportunità, magari più confacenti alle aspettative, dove prima se ne intravvedeva una sola.

Curando la propria storia e aiutando gli altri a farlo, ci si cura.

Il potere delle storie è fortissimo sia sul presente, sia sul futuro, sia sul passato, infatti, una volta che si inizia a ricapitolare la propria vita in forma di storia, anche il passato viene ri-narrato, trova una nuova coerenza interna e la vecchia storia assume una fisionomia diversa, viene revisionata, divenendo più creativa, più immaginativa, più aperta.

Cambiare la narrazione della propria vita ed aiutare altri a fare lo stesso, può offrire la possibilità di vedere orizzonti più vasti, in cui tutto ciò che accade o sentiamo, può diventare opportunità per interrogarsi e aprirsi ad un maggior benessere.

Apprendere un nuovo modo di entrare in relazione con le cose che accadono sia fuori, sia dentro di noi: smettere di giudicarle giuste o sbagliate, desiderabili o indesiderabili, da accogliere o da rifiutare, coerenti o incoerenti. Piuttosto considerare che il principio di non contraddizione abita solo la logica e non la vita. In essa sinistra e destra sono complementari, un sintomo può essere il segnale non di una condanna, ma un’opportunità, utilizzabile se ci si dedica a coglierla; un conflitto contiene entrambe le cifre che lo compongono: rischio ed opportunità.

Guidati da questa nuova consapevolezza si può sfruttare la capacità umana di assumere posizioni molteplici nel vivere la propria esperienza (se subisco per esempio un attacco, la conoscenza del molteplice in me, mi permette di capire che il suo oggetto non è la mia totalità, ma una parte di me), scoprendo la chiave per affrancarsi dalla dinamica stimolo-risposta e aprirsi alla possibilità della libertà, che deriva dall’osservare con lucidità l’insieme della relazione conflittuale e le opportunità che essa offre.

La sfida che si pone, consiste nell’imparare ad integrare quello che appare inconciliabile ai nostri occhi. Non la ricerca a tutti i costi della continuità, percepita come oggettiva, attribuita a tutti i costi ai nostri processi di senso, per il fatto che organizziamo la nostra esperienza intorno ad un’unità; piuttosto il recupero della percezione della discontinuità, della non sequenzialità dell’esperienza riferita all’io.

Piuttosto che cercare di eliminare, strappare tutto ciò che è incoerente, sradicare tutto ciò che crea disturbo e procedere con un pensiero manicheo, dualista, comprendere progressivamente che la prospettiva che apre possibilità è rappresentata dal porsi la domanda: “Come posso valorizzare ciò che sta accadendo?”

E accogliere ciò che la vita via, via ci dà, cercando di integrarlo ed utilizzarlo, facendo in modo che possa nutrire la nostra vita.

L’apprendimento che qui si propone ha a che fare con l’imparare a muoversi in un orizzonte di senso, in cui le contraddizioni e le contrapposizioni sono la linfa per un cambiamento, che non si basa sull’utilizzo di conoscenze passate, ma sulla ricerca di nuovi atteggiamenti.

Apprendere modalità che aiutano a relazionarsi diversamente con la vita e con gli altri, accogliendo e ricercando l’armonia con tutto ciò che accade, senza respingerlo, in una dimensione e-e, usandolo come occasione costruttiva; sentire e riconoscere l’esistenza di un potere più grande dell’io, che impedisce la gestione completa della propria realtà esterna e relazionale e contemporaneamente apre a scelte creative, svincolate dalla dinamica stimolo-risposta. Questo limita la responsabilità di ognuno a una parte (piuttosto che alla totalità) e circoscrive la possibilità di cambiamento solo a ciò che è ad essa collegata (anche se poi il cambiamento di una parte influenza l’intero sistema). Contemporaneamente questa prospettiva rende possibile sperimentare la non solitudine di fronte alle difficoltà, il sentirsi parte di un sistema più vasto, sulle cui risorse si può contare, per aprire prospettive nelle difficoltà, dove l’io cosciente non riesce a trovare soluzioni adeguate, grazie all’accettazione del principio di complementarietà e di intima interconnessione.

La volontà può essere usata nell’orientare efficacemente l’attenzione a questo livello di esperienza, in cui l’io si lascia guidare nel proprio agire e l’azione scaturisce spontanea, senza la mediazione della riflessione.

Ciò permette di entrare in una dimensione che Bateson definirebbe estetica, in quanto capace di cogliere la struttura che connette gli opposti e libera dallo schema stimolo, risposta, rinforzo, sostituito da stimolo, sintonizzazione con il livello estetico, risposta creativa, che non cerca rinforzo nell’approvazione dell’interlocutore.

In tale realtà, uno sguardo alla complessità è da prediligere come antidoto all’eccesso di semplificazione, che sovente banalizza la nostra vita e la vita altrui. Spesso si semplifica, eliminando il superfluo, o meglio dire quello che in quel momento sembra non utile al risultato/bisogno, che si individua come prioritario; con esso però si rischiano di trascurare e non curare pezzi di vita, risorse da cui potrebbero scaturire percorsi nuovi.

Non ridurre la complessità, compagna di viaggio paradossalmente desiderabile, soprattutto nelle difficoltà, perché se da un lato può affaticare, dall’altro può permettere l’emergere di risorse inaspettate.

Accettare la complessità del mondo, significa accettare la ricchezza delle esperienze e la pluralità dei bisogni e dei sogni che ciascuna storia porta nella propria e nell’altrui vita. Se da un lato la complessità richiede attenzione e competenza, dall’altro rigenera.

Prendo a prestito una frase a me cara: “Le dicotomie sono mostri, afferma G. Bateson, in effetti ci chiudono e ci costringono a pensare in modo limitante (in cui sono previste solo due possibilità poste sulle due estremità di un asse, anziché su un continuum) e dualista, in cui si ha difficoltà a costruire una visione di insieme, come se lo sguardo dell’occhio sinistro si mantenesse separato da quello dell’occhio destro e si perdesse la visione della complessità e della pluralità”.

Si tratta di tentare di perseguire un modello di inclusione (di tipo e-e), anziché di esclusione (o-o).

Alla base di esso c’è la convinzione che il pensiero umano abbia forma e struttura narrativa. Il focus è sul linguaggio, sull’attribuzione di significati personali ed interpersonali e sulla narrazione.

L’essere umano, secondo E. De Bono, non tende naturalmente a cercare stimoli, comportamenti e soluzioni differenti da quelli già sperimentati e collaudati, non solo quando essi sono soddisfacenti, ma anche spesso quando non lo sono. Si determina così il fenomeno per il quale l’individuo tende a risolvere problemi o a progettare qualcosa secondo uno schema conosciuto, considerato non solo rassicurante, ma giusto o addirittura il solo, il vero, l’assoluto.

Questo tipo di comportamento mentale viene definito da E. De Bono come “pensiero verticale”, noto anche come pensiero naturale. Esso consiste nel classificare le informazioni secondo cliché, che determinano automatismi di giudizio dai quali, una volta entrati in possesso, è molto difficile liberarsi. Corrisponde a un modo naturale di comportarsi, ma è fonte di limitazioni ed errori per la mente che, standardizzata nel modello inferenziale del pensiero logico, esemplificabile nel modello giusto-sbagliato, non è in grado di percepire ed elaborare la polivalenza della realtà.

Il “pensiero laterale” a cui  E. De Bono fa riferimento, invece, è un modo di risolvere i problemi o mettere in atto comportamenti, considerando una serie di ipotesi, che possono non sembrare logiche o giuste di primo acchito.

Si tratta di un modello di comportamento mentale totalmente contrapposto a quello definito pensiero verticale, in quanto non si sviluppa in maniera lineare e consecutiva, selezionando stimoli e idee e scartando tutto quello che devia da questo modello, ma opera, al contrario, astrazioni, che gli permettono di sottrarre il flusso di pensiero da un percorso unidirezionale.

Il “pensiero laterale” è quello caratterizzato dalla capacità di interrompere il flusso lineare nel suo procedere, cercando stimoli e soluzioni differenti, mai percorse. Esso pratica la via della discontinuità, della rottura, della differenza, piuttosto che della continuità e della coerenza.

Vorrei concludere portando un esempio estremo: quello di persone che hanno vissuto storie di abusi, di

violenze, storie di relazioni di soggezione all’uomo, che talvolta sfiora la schiavitù.

La consuetudine con storie come queste, facilmente le rende “normali”, o le uniche possibili.

Frequentemente queste persone tendono a riprodurre ciò che hanno sperimentato, o per cui hanno sofferto, si ripropongono nel ruolo di vittima (unica narrazione che riconoscono come pensabile).

Conoscendo la loro storia e quella delle loro famiglie, ci si rende conto che spesso tendono a ripercorrere scelte e modalità relazionali sperimentate dalle loro madri o nonne.

Ma è possibile rompere la continuità, fare scelte diverse?

Non è facile, in quanto c’è un’abitudine, una tolleranza alla violenza, un’accettazione della fatalità della sopraffazione.

E ciò non lo si riscontra solo nelle persone che hanno vissuto esperienze “al limite”, come quelle che si incontrano nelle comunità alloggio, ma anche in donne vissute durante e dopo le battaglie per l’emancipazione, donne che possono contare su uno stipendio proprio, su una cultura solida, che hanno un loro posto nel mondo e non vivono all’ombra di qualcuno, occupano magari posti anche di responsabilità nella politica, negli affari, nei commerci e tuttavia sopportano in privato una soggezione, che non subiscono in pubblico.

L’argomento della subordinazione economica e sociale, dunque, da solo non basta a spiegare. Il problema non è solo fuori di sé, ma dentro, almeno, anche dentro.

Inoltre sottotraccia c’è una cultura profonda, un sapere non consapevole fatto di insegnamenti primari e di filastrocche da bambini, di consigli delle vicine, di canzoni popolari e di sguardi, di parole che continuano a risiedere nella testa, che producono comportamenti e spingono inconsapevolmente a fare determinate cose.

E’ presente anche una “mala educación”, un’onda reazionaria che sta riavvolgendo all’indietro il film della storia, che costringe a riaffermare che le donne sono uguali. Molto diverse naturalmente,  ma, sotto il profilo delle possibilità e dei diritti, uguali.

Una direzione verso la liberazione dalla ripetizione, consiste nell’educare a pensieri metaforici, laterali, impertinenti.

L’esercizio del pensiero laterale è l’opportunità che può essere offerta e percorsa da tutti coloro che desiderano cambiare la direzione della loro vita ed aprire la possibilità di vivere un futuro differente.

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